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Si chiede di dar contezza dell’impresa in modo stringato e senza dar flato a divagazioni e inutili mollezze. Ed ecco adunque per la Storia i fatti, in militaresco e viril rapporto, a che un domani non si abbia  a travisarne alcuno.

E’ notte fonda quando l’ardito manipolo chiamato a compiere l’impresa si desta, e scalcati i corsarini dalle salmerie, si appresta a vedere dalla spiaggia di Pescara il sorgere del sole. L’impresa si rivela da subito nella sua maschia durezza, che nel pallido albedo spinger i corsarini sulla sabbia faticoso è assai, ma tant’è si stringono i denti e si prosegue. Subito si appalesa altra asprezza: dei villici locali vogliono anch’essi fotografare il sorgente astro dall’istesso punto da noi scelto – badate! Che noi si è più vecchi e più cattivi, e, cosa che non guasta, siamo anche di più. Il numero è potenza – ma il sole sorge e l’alterco subito si placa, che la spiaggia è grande e c’è posto per tutti – fatte le foto di rito a imperitura testimonianza un solo grido si leva dai petti degli arditi: a Roma! A Roma! – mai grido fu più giusto e pregno di rievocative istanze. Ma, dannazione, quale c…o è la strada che porta a Roma? Il navigatore ci vuol far percorrere un pezzo, ancorché gratuito, d’autostrada, che però ci è preclusa dai cavilli legulei di queste vili democrazie. La buona vecchia cartina si rivela assai vaga, i villici locali tosto interpellati infidi e imprecisi ai limiti del sabotaggio. Una frase è però scolpita nelle menti: noi tireremo diritto! E dritti infatti andiamo e scopriamo ben presto la giustezza delle profetiche parole: eravamo già sulla strada, la tiburtina, e non ce ne eravamo accorti! Tosto si prosegue ma l’ora antelucana ed una subdola arietta fredda che giunge non a caso dalle comuniste steppe sovietiche rendono l’atmosfera gelida. C’è chi con giubbetto estivo traforato rischia il congelamento e gli altri certo non stan meglio. Tranne i soliti imboscati delle salmerie che al riparo negli automezzi si godono il calduccio degli abitacoli.

Dopo 50 km al primo spazio solatio ci si ferma a riscaldar le ossa e riattivare l’ormai congelata circolazione. Ma subito si prosegue e si macinano km su km, tanto che ci si ritrova in men che non si dica al passo a scollinar l’appennino. Il passo viene ribattezzato Passo del Monte Pelatone, che la vegetazione all’intorno scarsa è assai e si riduce a poca e secca erbetta. Purtuttavia lo spettacolo è maestoso, e tutti s’impressiona. La discesa vien quindi affrontata a manetta visto c’anche i mezzi si portano all’altezza del blasone. Ci si ferma ad un bar e quello che doveva essere un caffè veloce si trasforma in un’abbuffata a base di cornetti e dolci – ma ci può stare, non trattasi infatti di sardanapalico pasto ma di rimpiazzar le calorie perse per il freddo. Si arriva a Tagliacozzo. Ma i km mangiati come tagliatelle e l’apparente facilità del viaggio fanno affiorare tra la truppa il germe sedizioso delle mollezze borghesi che  si credea estirpate: si propone qualche digressione turistica a visitar paesi o per far strade più lunghe ma di cui si decantan le bellezze – i duri e puri insorgono -che lo struscio è roba da donnette e la metà è ancor lontana. Si discute e si paventa la scissione, ma poi lo spirito di corpo prevale ed accantonate le divergenze uniti come un sol uomo si prosegue. E fu cosa giusta, che di li a poco emergon le ruvidezze dell’impresa. I mezzi cominciano a mostrare segni di stanchezza e a nulla serve qualche intervento meccanico d’urgenza. Ci si ferma per mangiare, ma si rifuggon i ristoranti e si opta per un virile panino e qualche bibita portati dalle salmerie. Nel frattempo chi non tollera esitazione alcuna carica il suo pur sempre efficiente ma starnutante corsarino sul furgone e ne scarica novella e fresca cavalcatura. Si riparte direzione Tivoli. La benzina fornita dalle ostili plutocrazie si rivela nella sua nefandezza, il corsarino appena scaricato è ridotto a stanco ronzino. Una sosta permette di liberarsi dell’immonda mistura e versare nel serbatoio novella benzina italica: Il patriottico corsarino gradisce assai e si rivela gagliardo e prestante come ai suoi tempi migliori. Più passa il tempo e i km e più si assiste a virili offerte di privarsi, sia pur controvoglia e per spirito di servizio, della guida dei gloriosi corsarini per sobbarcarsi quella assai più umile dei mezzi d’assistenza. Sorge invero il sospetto che non di spirito cameratesco si tratti, ma di tentativi di imboscarsi negli automezzi pur di sottrarsi alle selle imbottite con marmo di Carrara dei corsarini. Ma Roma si avvicina! Alle porte uno dei corsarini  rivela la sua vera natura: non un moto morini, ma un moto ronzini! Sdegnato il suo padrone vorrebbe metterlo sul carrello e porre fine allo strazio, ma ormai si è quasi arrivati e si decide di proseguire ad ogni costo. L’attraversamento della Capitale si rivela arduo, la pavimentazione romana (che appunto è stata fatta dagli antichi romani e mai più aggiustata) faticosa. Si guida con il carrello portamoto che par che voli, non per la velocità ma per come saltabecca da una buca all’altra. Il traffico ed i semafori si rivelano impegnativi assai, complice anche la stanchezza di uomini e mezzi e all’eur il moto ronzini come testardo mulo si ferma e più non vuol saperne di proseguire. Decenni di esperienza di domatori di corsarini ne vengono a capo, ma il mezzo si comporta come una sanguisuga, per avanzare succhia le energie del pilota tanto che i cambi sulla malnata bestia si fanno continui. Beffa finale, a un km dalla meta si ferma e non vuol ripartire. Alla fine manganellato a dovere riparte e ci si lancia in un ultimo allungo per raggiungere la rotonda di Ostia. E’ fatta! E’ fatta! L’impresa è compiuta! I partecipanti, ormai assurti al rango degli eroi potranno nelle nebbie della senescenza ormai imminente, illuminarsi e dire: io c’ero!

 

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